
a cura di Caterina Flagiello
Ciro di Maio svela solo ora l’assalto per lo scudetto dei napoletani “in esilio”: “Tutti a ordinare il casatiello portafortuna, altro che cornetti rossi”. C’è chi tifa, chi si affida ai santi e chi invece… ordina un casatiello. E se lo fa a Brescia, vuol dire che qualcosa di magico sta succedendo. Ciro di Maio, chef e pizzaiolo verace originario di Frattamaggiore (NA), ha deciso di rompere il silenzio e confessare il piccolo segreto scaramantico che, a suo dire, ha accompagnato la volata finale della squadra partenopea verso lo scudetto: un boom di ordini del suo casatiello tradizionale, cucinato con sacralità nel forno a legna del suo ristorante “San Ciro”, a due passi dal multisala Oz. “Mi telefonavano anche di notte – racconta Ciro, ridendo – e tutti a chiedere lo stesso: ‘Lo fate ancora il casatiello?’ Ma non era fame, era fede. Perché, si sa, il casatiello non è solo un rustico, è un amuleto fatto di strutto e devozione”.
Il casatiello, icona gastronomica della Pasqua napoletana, è diventato così il nuovo totem portafortuna di un’intera comunità trapiantata al Nord. Altro che cornetti rossi e santini plastificati: quest’anno, a Brescia, la partita si giocava nel forno di Ciro. “Facevo finta di niente – ammette ora, a scudetto vinto – per scaramanzia. I napoletani sono fatti così: non si dice nulla finché non è sicuro. Ma il telefono squillava di continuo, anche da Bergamo, da Verona. Un cliente ha fatto due ore di macchina per ritirarlo caldo. Diceva che sua moglie si rifiutava di vedere la partita se non c’era il casatiello sul tavolo”. La ricetta seguita da Ciro è quella della tradizione, senza scorciatoie: farina, lievito madre, strutto, uova, salame, formaggio e pepe. L’impasto viene lavorato a mano, lasciato lievitare per ore e poi cotto – con ostinata ortodossia – nel forno a legna. “È lì che succede la magia – spiega – perché il forno a legna avvolge il casatiello come una nonna che ti tiene ancora per mano. La crosta si fa croccante, l’interno resta umido, e il profumo… be’, quello ti fa sentire in una casa che magari non hai più”. Una dichiarazione d’amore culinaria che a Brescia è diventata un fenomeno sociale. Al punto che, nei giorni della Pasqua e del rush finale di campionato, “San Ciro” sembrava un’enclave borbonica più che una pizzeria lombarda. “Avevo messo in carta il casatiello più per nostalgia che per business – dice lo chef – ma non immaginavo di ritrovarmi con 120 pezzi ordinati in tre giorni. Mi sono mancati solo i fuochi d’artificio e la banda musicale”. Ciro di Maio non è nuovo a questi exploit. La sua è una storia da romanzo popolare: nato nel 1990 a Frattamaggiore, padre dal passato complicato, madre casalinga e una vita cominciata presto con il lavoro. A 14 anni è già dietro un bancone, a 18 lascia la scuola e si tuffa nella ristorazione. Nel 2015, la svolta: da semplice pizzaiolo in una catena lombarda a titolare unico di “San Ciro”, oggi punto di riferimento della cucina partenopea autentica in città, con quindici dipendenti e una reputazione solida come una base di pizza ben lievitata. Il suo locale, amatissimo anche da vip e sportivi (tra gli habitué ci sono giocatori del Brescia Calcio e della Germani Basket), è famoso non solo per la pizza verace e il battilocchio – l’impasto fritto servito in carta paglia – ma anche per un menù alla carta che esplora la cucina napoletana con estro e rigore. “Tutte le pizze sono diverse – dice con orgoglio – perché io le tiro per le orecchie. Odio le forme perfette, voglio che abbiano personalità. Se c’è più pomodoro da un lato, è perché usiamo pomodori veri, mica passate industriali”. Ciro è anche un uomo di cuore. Lavora per formare pizzaioli nelle carceri, ha portato corsi online nel Rione Sanità, all’Istituto alberghiero D’Este Caracciolo, e si spende in progetti sociali che parlano di riscatto, mani sporche di farina e seconde occasioni. “Mi riconosco nei ragazzi di certi quartieri – racconta – perché anche io vengo da una strada difficile, via Rossini a Frattamaggiore. Ma ho sempre creduto che la pizza potesse essere un mezzo, non solo un fine”. E oggi, a suon di casatielli, pizze e ironia, Ciro si gode anche una piccola fetta di gloria scaramantica. “Non lo dirò mai ufficialmente – ride – ma secondo me, un po’ di scudetto l’ha portato anche il mio casatiello, non a caso ci ho messo quattro uova. D’altronde, se ha funzionato per tutti quegli scaramantici che mi chiamavano da Milano e dintorni, un motivo ci sarà”.
Chissà che l’anno prossimo, accanto alla Coppa, i calciatori non sollevino anche un casatiello firmato San Ciro. Sarebbe la consacrazione perfetta per un rustico napoletano che, a Brescia, è diventato leggenda.