Una riflessione personale sul diritto-dovere di servire le istituzioni, anche dalla cattedra
Sono un’insegnante di scuola secondaria di secondo grado e, da qualche anno, anche un’assessora comunale. Due ruoli distinti, ma uniti da un unico filo conduttore: la volontà di servire la collettività, educando da un lato, amministrando dall’altro. Eppure, proprio questa doppia responsabilità sembra generare diffidenza o incomprensioni. In un recente episodio, in seguito a una mia assenza legittima per motivi istituzionali legati all’incarico di assessora, il dirigente scolastico del mio istituto ha contattato direttamente il sindaco, bypassando completamente il confronto con me. Un gesto che ho trovato inopportuno e poco rispettoso, sia sul piano umano che su quello istituzionale. Voglio ricordare, a beneficio di tutti, che la legge tutela i lavoratori eletti in cariche pubbliche, riconoscendo loro il diritto a permessi retribuiti e non retribuiti per lo svolgimento del mandato (art. 79 del D.Lgs. 267/2000). Non si tratta di privilegi, ma di strumenti per garantire la partecipazione democratica. La scuola, come il Comune, è una palestra di cittadinanza attiva. Ma se chi si impegna viene guardato con sospetto, ostacolato o addirittura richiamato in modo inappropriato, si manda un messaggio pericoloso: che è meglio non esporsi, non partecipare, non impegnarsi. Scrivo questo articolo non per polemizzare, ma per aprire una riflessione: come possiamo conciliare l’impegno civico con il lavoro pubblico senza doverci giustificare continuamente? E soprattutto: perché una donna che fa politica e lavora in una scuola deve sentirsi in colpa per far bene entrambe le cose? Servono rispetto, consapevolezza e una rinnovata cultura istituzionale, capace di vedere nella partecipazione un valore, non un ostacolo. Per il bene della scuola, del Comune e – soprattutto – dei cittadini che serviamo ogni giorno, in aula e in municipio. Una Docente e Assessora comunale.